Se pure avessi deciso di venir meno all’Imperativo Etico Fondamentale che prescrive “evita di recensire il libro di qualcuno con cui hai mangiato un piatto di linguine”, mai e poi mai mi sarei cercato la grana di scrivere una critica del libro di uno da cui sono sospettato di essere un debosciato relativista!
Questa infatti non è una recensione.
Fra qualche riga, semmai, vi darò conto di quel che Jacopo ha detto rispondendo ad alcune mie domande sul suo racconto.

Disegno di Antonio Sileo. Quello in apertura è di Giulio Giordano, entrambi dal blog di Jacopo Nacci: Yattaran.com

Solo, voglio dirvi alcune cose per le quali questo racconto lungo (romanzo breve?) di Jacopo Nacci, uscito nello scorso ottobre per Novevolt, mi è piaciuto molto.
In una Bologna cupa trasportata sotto il cielo plumbeo di una Gotham City universitaria e multietnica (e che pure è proprio Bologna fino al midollo, e non poteva essere un altro posto) c’è Matteo che, quando fuma un’erba particolare che cresce sulla tomba di Re Salomone, diventa (lascia il posto a? viene posseduto da?) Dreadlock, una specie di supereroe (anzi no: di demone) rasta che si muove fra storie di violenza urbana, razzismo, degrado culturale, volgarità mediatica e “comicuzzi cortigiani” (ehi, ho fatto una citazione!) dalla risata a comando, che dispensano l’unica, fasulla critica alla volgarità televisiva (e lo fanno, paradossalmente, dallo schermo stesso della tv: siamo circondati!).
L’umanità che si muove intorno a Matteo-Dreadlock è fatta di studenti fuori corso, di una banda che si fa chiamare “I laureati” e agisce indossando le maschere di Eco, Pasolini e Tondelli, dei Destatori (un commando che si è dato la missione di svegliare la gente dal torpore indotto dai sentimenti posticci che sbrodolano dallo schermo e che non rivendica mai le proprie azioni, in una scelta estrema di rifiuto del circuito mediatico). E poi ci sono Lorenzo e Vittoria, l’amico con cui Matteo condivide il suo segreto e la ragazza dagli occhi verdi a cui non sa come svelarlo.
Ecco, dicevo. Perché mi è piaciuto “Dreadlock!”.
Primo, perché di quell’umanità ubriaca e cinica Matteo è il contraltare perfetto, e mentre leggi ti trovi a soffrire con questo ragazzo che sceglie (chissà perché: e te lo domandi, perché) di starci dentro fino al collo. Perché Matteo, una laurea da mettere insieme e magari le sue grane da risolvere, sceglie di farsi veicolo di quell’oscuro, muscoloso essere che vigila dai tetti? Perché sì. Perché è giusto. Non c’è nemmeno da domandarlo. Perché quando è lì con con una spalla fasciata e sanguinante, e due cadaveri che si è lasciato alle spalle, e Lorenzo gli domanda “che fai, lasci?”, lui non risponde. Aspira forte dal suo joint e, senza opporre resistenza alla dolorosa mutazione, si lancia ancora una volta nel cielo di Bologna.
Secondo, perché Jacopo scrive racconti che sono già cinema, con una colonna sonora nascosta fra le righe, i titoli e le citazioni. Ti fa sentire anche il vento che trasporta Dreadlock, e gli odori, e le cose al tatto: come quando Matteo conosce la ganja sacra, seduto “su una sedia fabbricata a Bamako con tre tipi diversi di legno, Lorenzo steso sul divano ricoperto di un telo nero e setoso. Persiane chiuse, penzolava tra loro una lanterna marocchina che rimescolava ombra e luce arancione sui manifesti dei rave europei e asiatici”, e dimmi se non senti persino l’effluvio, di quella lanterna marocchina. Anche senza mai averne vista una.
Terzo, perché “Dreadlock!” è una gran bella storia (e non le manca niente: sorprese e capovolgimenti compresi), ma la critica culturale che pervade tutto il racconto è solida e lucida. Emerge dalle descrizioni di quell’umanità inebetita, ma ancora di più esplode nella tristezza e nella solitudine di Matteo in mezzo a quella desolazione.

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Jacopo, ascoltandomi la soundtrack di “Dreadlock!” ho imparato un po’ di cose. Dimmi allora quali sono i fumetti e il cinema che hai mescolato nel tuo racconto. Hai punti di riferimento in quei campi?

Jacopo Nacci: Distinguerei le influenze dalle citazioni. Le citazioni sono più o meno segnalate, e comunque stanno lì per essere scovate, mentre, per quanto riguarda le influenze, puoi capire come io non sia particolarmente cosciente di quello che entra, il che penso sia un bene, vuol dire che c’è stata una rielaborazione autonoma – nel senso: indipendente anche da me in quanto individuo cosciente. Alcune influenze magari le comprendi grazie a certe recensioni particolarmente luminose. Per esempio le recensioni di Luca Giudici e di Ilaria Giannini, in merito al rapporto Matteo/Dread, parlano di possessione; leggendole mi sono reso conto che Devilman è probabilmente una figura che ha influito sulla concezione di Dread. Ieri sera poi mi è venuto in mente Ghost Dog, forse c’è anche qualcosa di Ghost Dog: i tetti, un codice spirituale calato in ambiente urbano.
E poi va’ a capire, le storie sono collettive, e anche Dreadlock è un’elaborazione collettiva: tutte le persone che sono nei ringraziamenti hanno contribuito alla costruzione della storia, alcuni sono scrittori, altri sono semplicemente amici. Il personaggio di Luigi Raffaelli, per esempio, deve il suo nome a un mio amico – tra l’altro grande illustratore – che, una sera in cui ero particolarmente preso male per via del (non) lavoro, ironizzò sull’opportunità di mettere insieme una gang di laureati in stile Pointbreak, non ricordo nemmeno se l’idea delle maschere fosse sua o mia. E il comico è frutto di un suggerimento dell’editor di Dread, Enrico Piscitelli, che mi ha messo di fronte al mio cattivo di finelivello e mi ha detto: abbi il coraggio di dire chi è, questo è un comico. Dovrei chiedere a tutte queste persone quali sono i loro riferimenti, per poterti rispondere.

Ma se ti dico che il tuo bel tentativo di far emergere un robusto e fondato pensiero critico da un racconto che mescola fiction, manga, supereroi mi fa pensare a Guattari e al suo discorso sulla pop filosofia, tu che mi dici?

J.N.: Che posso comprenderlo, e in un certo senso ci sta, ma credo si debba stare molto attenti. Innanzitutto c’è un discorso che riguarda le condizioni di elaborazione dell’opera: c’è una differenza sostanziale tra l’elaborazione delle opere della cultura umanistica – competenze, tecnica, concezione, tempi di lavoro, finalità – e un’opera pop, seriale, commerciale; non si può credere di assimilare la cultura pop alla cultura umanistica senza porsi problemi di questo tipo. Questo non significa che prodotti nati in un brodo primordiale pop non possano legittimamente aspirare a essere pienamente prodotti umanistici: il pop in questo senso è una questione di temi, di ambientazioni e di immaginari, è popolare più che pop, dunque non è detto che certe cose debbano restare nel pop, e non è detto che certe variazioni, per contrasto, non possano anche richiamare l’attenzione su aspetti criticabili o comunque problematici della tradizione cui si fa riferimento e innalzare così il livello di elaborazione.

Prima di “Dreadlock!” avevo letto il tuo racconto “La Foglia” nella raccolta “Orbite vuote”. Lì i ragazzini che frequentano un bar del lungomare di Pesaro, qui gli studenti universitari di Bologna. In entrambi ho trovato che il luogo, la città che fa da palcoscenico, ha un ruolo fondamentale, e mentre leggi pensi che quella storia non poteva svolgersi da nessun’altra parte… Su Tarantula da tre anni si parla anche di città, del loro rapporto con la vita delle persone. Come scegli i posti, e come ci metti dentro i tuoi personaggi?

J.N.: Sono i posti a scegliere. Come sono i personaggi a scegliere. In definitiva credo che siano le storie a scegliere e che le storie fermentino spesso dai luoghi. Sì, credo che Dreadlock potesse esistere solo a Bologna, perché nasce all’incrocio di due o tre o più dimensioni delle quali una è Bologna, o una dimensione di Bologna. Ma anche quando scrivo di luoghi che non ci sono, credo di partire da luoghi che ci sono, che mi hanno rimandato magari a luoghi che ci sono ma che non ho mai visto se non ritratti o immaginati, luoghi che sono luoghi dello spirito. Pesaro per esempio è piena di questi luoghi. Quando negli anni ‘90 solcavamo il lungomare con auto scappottate pompando gangsta-rap, quella era davvero solo Pesaro? Soria, un quartiere di Pesaro, d’inverno, dominata dal cielo grigio e dalle colline alberate, è il posto più grunge che conosco, e la periferia di Pesaro è sempre psichedelica ed è sempre tra gli anni ’70 e ’80. Subisco molto la trasfigurazione dei luoghi.

Ciao Jacopo, grazie!

Una risposta a "“Dreadlock!” di Jacopo Nacci: una non-recensione e qualche domanda all’autore"

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