[leggi gli articoli della serie “Poche storie”]

Questo post è estratto da un’orgia di appunti che ho buttato giù ispirato dal fatto che in blog e dibattiti trovo ricorrente un certo fastidio per una parola che un tempo ci pareva liberatrice e creativa e alla quale oggi si imputano colpe di ogni genere. La parola è narrazione.
In giro si coglie una certa voglia di realismo, come si capisce anche dal dibattito estivo su realtà e postmoderno, innescato dal manifesto del cosiddetto “new realism”, che Maurizio Ferraris ha firmato e che Repubblica ha pubblicato in agosto.
Voglio portare qualche argomento per spiegare che io per quella parola provo ancora simpatia. Se tutto va bene, da quell’orgia di appunti potrebbe sgorgare una serie di post di cui questo è il primo: ma non assicuro niente, dato che noi postmoderni siamo fatti un po’ così. Non ti puoi mai fidare.
Nella diffusa diffidenza verso la parola “narrazione” si intravede il sospetto verso un modo truffaldino di usare le parole: narrazione come invenzione ad arte, imbroglio, costruzione di una realtà che lusinga, blandisce, e intanto occulta. La narrazione evoca le circonvoluzioni dell’affabulazione vendoliana, e lo capisco. Fa pensare alla fiducia magica che il personaggio Saviano ripone nella parola: la narrazione come salvezza. Già. Ma poi, questo lo capisco meno, si accusa la parola di portare acqua al mulino della costruzione berlusconiana della realtà. Questo è un argomento la cui logica un po’ mi sfugge: la narrazione è l’asservimento spregiudicato della verità da parte delle destre, dice Ferraris nel suo manifesto del neorealismo (no, “nuovo realismo”, ché sennò viene in mente De Sica); è il suo uso come “costruzione ideologica e ‘imperiale’ da parte dell’amministrazione Bush, che ha scatenato una guerra sulla base di finte prove dell’esistenza di armi di distruzione di massa”, scrive l’estensore.
Ecco, qui mi perdo: Bush non ha mai fatto appello a qualche teoria sulla verità come punto di vista. Non ha mai detto: sai che c’è? Quel Saddam lì mi sta proprio sul culo (il petroliere texano postmoderno me lo figuro così, un tipo che non lo trovi spesso ai cocktail perché usa un linguaggio un po’ licenzioso), lo bombardo perché ho le mie ragioni. No. Ha detto: lo bombardo perché ho ragione. Ha detto una bugia volgare e mostruosa difendendola come verità, non come parziale e mostruoso ancorché legittimo punto di vista. Ha mentito, e di brutto, sapendo di mentire. Punto.
Non basta: ha fatto una guerra per esportare la “cultura superiore”. Ditemi se non è una manifestazione di fede assoluta nella “realtà”, una realtà scolpita nella roccia, tale da richiedere di a bombardare per imporla: migliaia e migliaia di morti non valgono lo scalpello che l’ha incisa.
Capito cos’è che non mi è chiaro? Non mi è chiaro in che senso una specie di John Wayne pronto a sterminare un sacco di gente per affermare la superiorità anche morale dell’Occidente si possa accusare di contiguità con un’idea che dubita della possibilità di ritenere un qualunque punto di vista superiore a qualunque altro. Chi me lo spiega?
Di recente, durante la presentazione di un mio libro, Jacopo Nacci che ne discuteva insieme a me, mi ammonì che la convinzione per cui il cuore della nostra esperienza sia in definitiva narrativo è una pericolosa concessione a qualche premessa del berlusconismo. Io a Jacopo gli dò ascolto, è uno che stimo come pochi. Sul berlusconismo scrive sempre cose che mi fanno pensare.
Così ci penso da allora, anche perché trovo in giro diverse varianti di questa opinione. Sono andato a rivedermi i video dei discorsi di Berlusconi: ho deciso arbitrariamente di considerarli rappresentativi della filosofia della sua “discesa in campo”, e certo ne rappresentano una passabile e attendibile sintesi. Proprio da quello che annunciava la discesa ho cominciato: mentre iniziavo a scrivere questo post, domenica sera, mi è arrivata notizia dell’ultimo, quello in cui il Presidente uscente del Consiglio spiega al Paese le sue dimissioni.
Però non capisco. Non solo non trovo traccia, in questi documenti, di una posizione benevola verso una pur vaga possibilità di ritenere ragionevole una visione del mondo diversa da quella del titolare, ma anzi li trovo traboccanti di una visione essenzialista e realista, di una fede ostentata (vera, simulata, strumentale, è un altro discorso: sul serio, è un altro discorso) nella “verità” da difendere contro il relativismo dei nemici (comunisti per lo più). Ideologia a carrettate, altroché.
“…Non voglio vivere in un paese illiberale governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare“; “rinuncio dunque al mio ruolo di editore e di imprenditore per mettere la mia esperienza e tutto il mio impegno a disposizione di una battaglia in cui credo con assoluta convinzione e con la più grande fermezza“; “mai come in questo momento l’Italia, che diffida giustamente di profeti e salvatori, ha bisogno di persone con la testa sulle spalle e di esperienza consolidata, creative ed innovative, capaci di dare una mano, di far funzionare lo Stato” (dal video a reti unificate del 1994, quello della “calza di nylon”). Contenuto e architrave retorica di quel discorso si ritrovano nell’ultimo messaggio autogestito trasmesso dai tg la sera del 13 novembre: disseminato di parole chiave quali convinto, vincere, impegno, record, stabilità, responsabilità, milioni di italiani eccetera. La sua autodifesa non è quella di chi ha cercato di difendere un qualche punto di vista sul mondo: la verità è la sua forza e la ragione del suo duplice sacrificio, quello di scendere in politica prima e quello di risalire a casa poi. A quella verità si oppone chi lo fischia e chi lo ha voluto fuori da Palazzo Chigi. La sua responsabilità è quella di saper distinguere fra – alla fine – buoni e cattivi. Non è la responsabilità della scelta di un “punto di vista” (ma puoi essere responsabile se non di una scelta? Che responsabilità hai, di cosa “rispondi”, se dici che la verità è la verità? Che assunzione di responsabilità c’è nel dire che due più due fa quattro?); è la responsabilità di chi sa bene, e perciò la riconosce, da che parte sta la verità.
Non vi trovo traccia, nemmeno debole, di una visione del mondo, diciamo così, narrativa. Trovo, anzi, l’incrollabile arroganza di chi, pur nel mezzo del fallimento, coltiva la convinzione che se esiste (ed esiste) un’unica posizione “giusta”, è quella che ha assunto lui. Non c’è riduzione della realtà a punto di vista: semmai l’impossibilità di vedere che il proprio punto di vista è un punto di vista, e perciò la sua promozione a realtà incontrovertibile, totalmente estranea alla possibilità del dubbio.
Ma poi c’è il vero gioiello. Nel discorso in cui comunica al suo popolo e al mondo tutto che il capo è ferito ma indomito, Berlusconi celebra la rocciosa consistenza della sua Verità. Cita sé stesso e il suo discorso del 1994: “Questo è il paese che amo, nel quale ho imparato da mio padre e dalla vita il mestiere di imprenditore eccetera”.
Ora: altro che postmoderno, altro che narrazioni. Che fiducia, anzi, nella rocciosa essenza di un sé uno e immutabile, essenziale (nel senso dell’essenza, della “cosa”), concreto. “Io sono lo stesso di diciassette anni fa: niente è cambiato; è vero, siete tutti più vecchi e il mondo è completamente diverso, ma guardate i miei capelli e la mia pelle (e che dire del vigore sessuale?): sono ancora quello”. E ripete parola per parola quel discorso affidato all’etere diciassette anni prima e poi moltiplicato in migliaia di copie grazie a Youtube, che qui assume d’un tratto la sacralità e l’autorità di un Testo a cui riferirsi citandolo alla lettera.
Nelle stesse ore in una missiva, mi pare indirizzata a Storace, il Presidente dimesso si riferiva allo strappo di Fini come al “peccato originale”.
Altro che la lievità postmoderna delle narrazioni: questa è la Genesi, mica “Sliding Doors”. La Storia dell’Unto s’impone con un peso specifico talmente ingente che lui stesso vi rimane spiaccicato sotto: sebbene non abbia se non una impressione personale a corroborare quel che dico (ma col tempo potremo valutare l’impatto di quel videomessaggio, e ci scommetto qualche euro che ho ragione), quell’autocitazione è l’errore più incredibilmente grave commesso dal comunicatore nella sua carriera. Il volto teso e piallato dal chirurgo, la voce stanca che recita quelle parole un tempo vibranti ed entusiaste, sono il ritratto più chiaro della chiusura di un ciclo. La rappresentazione plateale della fine di un’epoca.
Una mia impressione, dicevo: ma se stamattina alcuni commenti alla radio (non, mi pare, la maggioranza dei titoli di giornale) definivano quel video “il discorso del commiato”, quella scelta credo abbia appannato seriamente l’intenzione di riscossa.
Il granito della sua Verità gli è finito addosso, come quei massi che Willy il Coyote faceva rotolare contro la sua preda e che, arrivati in cima alla salita, rotolavano all’indietro per far dell’incauto orrenda sottiletta.
(Forse continua. Non abbiamo certezze)

14 risposte a "Poche storie (1): Berlusconi ce le ha pesanti. Le narrazioni, dico."

  1. Massimo secondo me la fai facile, è un argomento solido ma anche come dire storico. La forza dell’ermeneutica, il grimaldello del postmoderno, è sempre stato questo: relativizzare l’indicativo del potere e mostrare la corda della narrazione. Non è vero quello che ti dicono è narrazione! Non esistono ancoraggi forti, solo la volonta di potenza. In questo modi il postmoderno fa sentire buoni e carucci, perchè sta dalla parte di chi non ha niente se non la possibilità di difendersi con la diffidenza.
    Ora, io sono assolutamente d’accordo sull’importanza da dare al medium narrativo, alle singole narrazioni, uno nessuno cento mila, cosi è se vi pare, etc. etc. etc. Ma sono un passaggio, un’intermedio sostenuto da altro, e che una certa cultura ha ipostatizzato. Ma se sposti il gioco delle parti, e se lo inverti, scopri che il debole di tutto può avere bisogno tranne che della relatività delle narrazioni. Voglio dirti: non è che per me dire sporco negro è una cagata perchè sono contestualizzata storicamente, sporco negro per me è una conquista, e se tu ar nero gli dici che invece è una questione contingente, immediatamente ti allei con chi non vuole punire il razzista. E così anche nella ricerca scientifica, e persino nella ricerca del nostro campo. Non c’è narrazione senza regole strutturali che compongono le grammatiche, e le sintassi nelle diverse lingue, e le logiche segrete che permettono alle eccezioni e agli errori di divenrare pasta del linguaggio. Il confronto con le narrazioni deve essere perciò una prova da superare, non una sconfitta da anticipare.
    Quindi per me, da ricercatrice e da filosofa, non del tutto dimentica di certi tremebondi insegnamenti forse molto moderni, non sono valide mai le simpatie estreme, nè solo per la metafora, nè solo per la concretezza, nè per l’idiografico nè per il nomotetico, perchè tutto è dialetticamente informato.

  2. Voglio ragionarci di più e voglio ragionarci molto.
    Intanto mi/ti segno due cose:
    Non ho trovato traccia della parola “narrazione” nel manifesto di Ferraris. Non è puntiglio: se i fatti mi danno ragione, non mi pare cosa da poco. Una prima ragione è, come dire, filologica: le “grandi narrazioni” sono proprio quelle delle quali il postmoderno sancisce la caduta. La seconda ragione, che mi sembra meno formale, è che proprio il problema non mi sembrano le narrazioni, quanto il relativismo.
    Alla presentazione infatti ti dissi non che “la convinzione per cui il cuore della nostra esperienza sia in definitiva narrativo è una pericolosa concessione a qualche premessa del berlusconismo”, se non ricordo male, bensì che c’è connessione tra relativismo e berlusconismo. Né ho problemi a credere che il cuore della nostra esperienza sia narrativo. Tanto più che non ti direi mai che un’opinione va rigettata perché pericolosa: ciò sarebbe del tutto in contrasto con la mia impostazione. Rigettare un’opinione perché pericolosa è piuttosto relativismo, o quanto meno pragmatismo etico esasperato fino alla negazione (eventuale) della realtà.
    Quello che ho detto io era che inventare una narrazione, un’interpretazione dei fatti, che si ponesse uno scopo piuttosto che un altro sembra essere, appunto, un pragmatismo etico esasperato fino alla negazione (eventuale) della realtà. È piuttosto il collegamento che mi sembri istituire tu tra narrazione e relativismo che ti porta a interpretare il mio rifiuto del relativismo come un rifiuto della narrazione.
    Sinceramente io sono incapace di analizzare la natura della narrazione, ci sono troppo dentro, è un oggetto che sto ancora studiando e non è detto che ne verrò a capo. Però, come ti dissi quella sera, sono convinto che la letteratura sia al servizio non del relativismo, ma dei punti di vista.

  3. Torno un altro po’.
    Mi sembra che tu continui a descrivere il discorso realista sulla verità adottando la semantica del relativismo. Parli – in riferimento a Berlusconi – della sua verità. Allora già per me l’associazione di un aggettivo possessivo al sostantivo verità è un problema, perché su questa base, che è già relativista, io non posso più parlare. Quella di Berlusconi non è necessariamente la verità, lo è se corrisponde a un effettivo stato delle cose. “La neve è bianca” è vero solo se la neve è bianca. Se Berlusconi crede in una menzogna, il problema è suo (e nostro, se ha potere) ma la verità resta la verità.
    Il problema del relativismo, al di là dell’errore teoretico, è proprio quello che è, di fatto, fondamentalismo: se io e te neghiamo il riferimento a una realtà esterna o alla logica del linguaggio che a quella realtà dovrebbe corrispondere, un punto d’incontro non lo troviamo – e anche qui prescindendo dal fatto che non vedo nulla di lecito nell’annichilire la realtà ontologica, logica e assiologica.
    Abbiamo cominciato con il tollerare le più immense cagate in nome del punto di vista, e poteva anche andare bene, ma a un certo punto è diventato illecito persino tentare di confutarle. Per il relativista la confutazione è violenza, dunque è illegittima: “Chi sei tu per?”, come se la verità fosse una cosa mia, e infatti “Credi di avere la verità in tasca”; no affatto, quello è il relativista.
    Non solo. Di fatto, è proprio laddove non si rinvenga un principio normativo nella realtà che si trova la scusa per imporre una legge, e in definitiva uno stato etico: l’esempio di Ratzinger, per cui senza Dio non si darebbero valori, è eccezionale: nella sua sedicente lotta al relativismo, è un campione del relativismo (ontologico, perché per lui pare che il bene non sia caro a Dio perché bene, bensì che il bene sia bene perché è ciò che Dio ha deciso essere bene; e gnoseologico, perché senza una rivelazione accettata per puro fideismo, anche se in contrasto con la realtà – di nuovo un problema ontologico – l’essere umano non è in grado di accedere ai valori).
    Il berlusconismo è legato senza dubbio al relativismo, e non solo perché il suo alfiere per diciassette anni ha ammazzato il principio di non contraddizione ogni due giorni, ma perché ha trasformato la comunicazione (o ne ha svelato l’intima essenza) in sloganismo, ha rifiutato l’analisi e la riflessione disprezzandole, ha fatto trolling continuamente in ogni sede possibile, ha distrutto il valore della logica riducendola a strumento della volontà di potenza e in definitiva l’ha costretta ad abdicare a vantaggio della retorica, ha fatto di ogni motivo un argomento ad hominem. Ha utilizzato tutta la strumentazione messa a punto dal relativismo da talk-show per imporre la sua versione.

  4. Su Berlusconi direi che c’è una narrazione nella sua propaganda. Si potrebbe condensare così: ho fatto del bene e mi perseguitano, quindi mi immolo per la libertà di tutti. Si è costruito un personaggio che è un misto di vitalismo e di ideologia narcisistica (se si può dire così). Tutto fasullo, dirai. Certo, ma questo dimostra solo che potere e denaro possono deformare la percezione della realtà, non che la realtà non esiste o non può essere comunque percepita.
    Per quanto riguarda invece il clima di diffidenza sulla narrazione come costrutto, ti dico che mi sembra un rigurgito di filosofie del sospetto che non si rassegnano ad una sconfitta quasi definitiva. Non si tratta tanto di relativismo o di postmodernismo, quanto di riconoscere che non si può comprendere la realtà senza valorizzare il significato. I significati, tanto per dire, non stanno tra le righe (Lacan) ma nelle righe. E la verità dell’Io non è l’inconscio, ma anche (ripeto, anche) la storia che produce un senso per l’Io. Per questo la narrazione è irrinunciabile come prospettiva per interpretare la psicopatologia. Purché non si creda che tutto sia narrazione e che non ci siano altri “vincoli”, altre realtà, altre dinamiche.
    Aspetto il seguito, caro Massimo. 🙂

  5. Eccomi, mentre mi accingevo a commentare gli interventi di Zaub e Jacopo ho trovato Fabio, con cui sono d’accordo: il fatto che Berlusconi sia un bugiardo cronico che c’entra con il pensiero debole? Ma ci torno.
    Prima chiedo a Zauberei e a Jacopo di guardarmi negli occhi e seriamente (senza scoppiare a ridere, eh!) dirmi che pensano veramente che il relativista, in questa storia, è quello che esporta la “cultura superiore”.
    Jacopo, hai ragione: Ferraris non usa mai la parola “narrazioni”. Ma se appunto, come tu dici, il postmoderno ha inteso fare piazza pulita delle “metanarrazioni”, è proprio per far spazio alle narrazioni locali, parziali, provvisorie. Ai punti di vista insomma. Dunque mi sono preso la libertà di accostare i due discorsi.
    Però vedo che mi avete preso per una specie di talebano del postmoderno. Io in realtà (l’ho scritto anche qui proprio di recente) non mi sento particolarmente incline a uno scetticismo che sia uguale e contrario al realismo ingenuo.
    No, dicevo proprio: cosa c’entra la destra?
    Jacopo, se credi l’aggettivo possessivo puoi toglierlo: non mi cambia. Chi è convinto di conoscerla non la chiama “la mia verità”. La chiama “la verità”. Sia che pensi che il mondo è un disegno intelligente, sia che pensi che sia il risultato di una gran botta di culo. Berlusconi non dice “secondo me siete comunisti”, dice “siete tutti comunisti, poche storie”, e pretende di parlare in nome della verità.
    È uno che dice bugie o che le spara grosse: che c’entra il postmoderno? E quando gli ricordi che il giorno prima ha detto un’altra cosa, non risponde “beh, è quello che pensavo ieri, e allora? Mi vuoi forse costringere a pensare la stessa cosa tutti i giorni?”. Ti risponde “no, mai detto una cosa simile”. Falsifica la realtà perché quello che vuole è avere ragione.
    Poi ti capisco poco quando parli di “relativismo da talk-show”: io penso al talk show come a un contesto dove i significati sono semplificati, banalizzati, schiacciati. Dove ci si azzuffa perché si è convinti di avere ragione e che la ragione sia una. Che c’entra il relativismo? Mi pare piuttosto il trionfo dell’ideologia realista.
    Fabio: “non si può comprendere la realtà senza valorizzare il significato”. Ecco. Se riesco a continuare ‘sta rubrica (è una faticaccia) vorrei portare il contributo del nostro mestiere, della nostra pratica, all’idea che la realtà senza significati, magari esiste, eh! ;), ma quando ne parliamo, è di significati che parliamo.

  6. E però, Max :D. Innanzitutto ci tengo a dire che non ho parlato di destra, che è tutt’altra cosa. Non ho quasi nemmeno parlato di Berlusconi: ho parlato di berlusconismo. Vedi, Max, se tu dici “addio alla verità”, poi sono io che devo continuamente dire cosa NON ho detto. 😉
    Ripeto, ho parlato di berlusconismo e relativismo.
    Insomma, sto dicendo che se una balla si può imporre come vera, tanto che le persone che la credono o la vogliono credere finiscono più o meno per distinguere tra un “vero” vero e un “vero” di persuasione come fossero entrambi leciti, è perché il “vero” vero ha perso potere, la nozione di verità ha perso valore. Non ci vuole niente a dimostrare che Berlusconi dice una balla, se vale il riferimento alla realtà, non ci vuole niente a dimostrare che Berlusconi si è contraddetto, se vale il riferimento alla realtà. Il problema è che quel riferimento non vale più, quindi è possibile credere e non credere – cioè credere professando la libertà di credere ciò che si vuole – nel discorso del discorsivamente più forte.
    Allora, io sono convinto che questa situazione sia stata preparata dal soggettivismo in cui coltivare la “propria verità” (brrr) appare come un diritto, e in definitiva da una concezione totalitarista del mercato che ha trasformato ogni questione in un de gustibus.
    La predominanza dello sloganismo e del pragmatismo del qui e ora (che quindi pragmatico non è se non nel senso che è dominato dalla tecnica) è possibile solo dopo la scomparsa della realtà.
    Il berlusconismo ha lavorato sul linguaggio destituendolo dal riferimento alla realtà. Il trolling di stato lo abbiamo visto tutti. Il berlusconismo è essenzialmente lo spazio-tempo nel quale si ragiona per tifoserie e nel quale ogni argomento è vero o falso non in sé e nel suo riferimento al reale, ma in base a chi lo enuncia: tutto è ad hominem. E questo vale anche per gli antiberlusconiani, che del berlusconismo sono parte integrante nel momento in cui si schierano con Grillo-Santoro-Travaglio per partito preso ed è l’autorità a decidere del vero e del falso, non la realtà. Tanto che se vai a spulciare, il disprezzo per l’analisi è trasversale.
    Ma guarda che io qui la responsabilità più grande la attribuisco alla sinistra o sedicente tale, la sinistra vattimizzata, che, nel nome di un ideale ottuso di tolleranza e libertà che non può che condurre all’intolleranza e al fondamentalismo, ha tradito il primato del reale.

  7. Questa è proprio una faccenda interessante. Per quel che ne so, non possiamo fare a meno di narrazioni, per darci ragione di cio’ che accade, per poterne parlare, per poter comunicare. La narrazione in se non è né buona né cattiva, ma uno strumento indispensabile, come la voce, o la scrittura. Quasi una necessità neurologica, collegare i puntini, tirar fuori da tanti stimoli una storia, dalla simultaneità una cronologia, e poi anche tentare un hoc propter hoc dove c’è un hoc post hoc. Qualche volta ci salva, qualche volta ci frega. L’importante è sapere che di storie si tratta, che utilizzano pezzi della realtà, ma non sono la realtà, che sono provvisorie, personali, e rivedibili. E sopratutto se si interessano di verità occorre usarle con cautela, ed essere pronti a verificarle, ed a farle verificare…

  8. Vorrei precisare una cosa, intervenendo a proposito del commento di Jacopo. Penso che ci sia una bella differenza tra realtà e verità. Sulla verità mi sento vicino alle posizioni di Foucault: è un dispositivo di successo che determina i moderni rapporti di potere. Nessun potere può farne a meno, pare. Ma la realtà è un altra cosa. La realtà è lo sfondo (prima ancora dell’oggetto) dei discorsi. Pensare di farne a meno significa rendere impossibile il dialogo. Se uno cerca di convincermi che il legno è morbido, a me non resta che dargli un pezzo di legno sulla testa. Ma questo che vuol dire? Che se c’è una realtà condivisa si può trovare il modo per articolare diverse idee che riconoscano i “diritti” di un mondo che può smentirti. Il berlusconismo sembra stare sempre con un piede fuori da questo riconoscimento. Ma non è la realtà che scompare, non c’è soggettivismo che tenga, perché bisogna riconoscerne la forza dirompente. Scompare invece la possibilità si dialogo (come avviene infatti in tutti i dibattiti tra berlusconisti e antiberlusconisti). Ovviamente ci vuole tempo per smontare le confabulazioni dei negatori della realtà. La Terra però era sferica anche quando tutti erano certi che fosse piatta. E alla fine noi siamo qui a dire che la Terra è sferica. Mi fermo qui, ma forse ci torno.

  9. Fabio, grazie, mi dai modo di chiarire ulteriormente.
    Dunque. La verità non è la realtà, sono d’accordo, per il fatto che per me la verità è il discorso sulla realtà. Invece non sono d’accordo con la posizione di Foucault che – se la interpreto bene – trovo trasimachea: non capisco come sia il potere a poter determinare la verità, dato che la verità sarebbe quel solo discorso che si attenesse alla realtà (e intendo chiaramente, per i mortali, la verità come relazione-alla-verità, come atteggiamento, logico e assiologico). Il potere può fornire o imporre una versione, può imporre un medium financo, ma non certo decidere al posto della realtà cosa sia verità e cosa no, come nessun altro.
    D’accordo con la realtà come sfondo prima che come oggetto, e d’accordo sul pezzi di legno, sui diritti del mondo che può smentirti. Per questo infatti quando ho detto che la realtà scompare intendevo dire non che la realtà ontologicamente scompare, ma che gnoseologicamente (dal pensabile, al sensibile, al percettibile) scompare. Il problema è proprio il fatto che la realtà rimane, manca il riferimento alla realtà, e dunque scompare la possibilità di dialogo. E ripeto, credo che questo sia avvenuto soprattutto nel corso della civiltà soggettivista.
    Sul fatto che «ci vuole tempo per smontare le confabulazioni dei negatori ella realtà», è esattamente a questo cui mi riferivo quando parlavo di trolling di stato: ormai qualsiasi discorso di chi è in buona fede e intende salvaguardare il primato della realtà dopo la prima battuta diventa un discorso che non può affermare nulla di sintetico, perché è costretto a essere giocoforza analitico, a smontare continuamente gli impliciti e gli assunti indebiti del sofista di turno – e la posizione si aggrava, perché il discorso analitico, nell’era dello sloganismo, è paradossalmente considerato non vero: non è comunicativamente efficace, non è veloce, non è divertente, non è facilmente ripetibile, quindi, per molti, è falso.
    A riguardo qualche tempo fa scrissi questo.

  10. La verità è un argomento difficile, eh? Comunque mi provo a chiosare ulteriormente. Non mi ci metto nemmeno a illustrare le idee di Foucault sulla verità, non è nelle mie possibilità. Però posso dire che che c’è una cosa che può essere utile alla nostra discussione. Per Foucault gli antichi avevano una concezione “incarnata” della verità; era vero il discorso che corrispondeva al pensiero del soggetto. Il dualismo vero/falso era dunque tutto interno al rapporto tra pensiero e linguaggio (ovvero, in particolare, il discorso pubblico). Da un certo punto della storia delle idee, la questione ha cominciato ad essere un’altra: la verità diventa il discorso che è la realtà stessa (non più sulla realtà). Ed è su questa svolta che si costituiscono i “pericoli” del governo delle menti e dei corpi che si istituzionalizzerà nel corso dei secoli successivi (XVII-XX). Si potrebbero dunque fare alcune considerazioni sui diversi statuti che si giocano nei discorsi politici, proprio a partire dalle cose che dice Jacopo nel commento e nel suo post. E forse si potrebbe anche ipotizzare che si stia imponendo una diversa concezione della verità, fatta di appiattimento verso il basso (prodotto dall’alto, però) , idolatria del consenso, svalutazione della critica e altro ancora. Si tratta di un vero e proprio “furto” della verità (intesa come terreno di scontro filosofico, scientifico e culturale). Si tratterebbe di quella che Giovanni Bottiroli chiama una “privatizzazione collettiva del reale”. Come si può comprendere da questi termini, vi è una estrema coerenza tra intenzioni, azioni e linguaggi, a saperla leggere. Infatti il berlusconismo è in sintesi il “primato del privato”. Scusate il gioco di parole.

  11. Gasp, torno da un viaggio durante il quale non ero in condizioni di pubblicare e vedo che il dibattito è cresciuto.
    Jacopo: sì, non hai parlato di destra. L’ho detto io perché ho cercato di estrarre quello che mi pareva un comune denominatore (al quale mi ribellavo) fra le cose che ha scritto Ferraris e le cose che mi dicesti tu (a voce). Probabilmente non dicesti “Berlusconi” ma dicesti “Berlusconismo”. Ci sto: anch’io non distinguo e anch’io credo che il secondo sopravviverà al primo e che sia storia ben più antica di lui. Pur col sollievo provato alle dimissioni del cavaliere, non ho ancora trovato ragioni di brindare e meno ancora ne trovo guardando lo sviluppo della storia. Anch’io attribuisco alla sinistra colpe gravi: forse non quella di aver provato a creare un soggetto molteplice e “disidentitario”, diciamo così, che fu una sfida che lì per lì mi intrigò. Semmai quella di non aver voluto provarci per davvero, o di non esserne stata capace.
    Però, Jacopo, anche il potente che racconta balle e la gente che ci crede, sono storia antica. Come il cucco, che come si sa precede il postmoderno.
    Poi, dicevo: il dibattito è tracimato dalla questione “postmoderno, Berlusconismo, Bush” per diventare anche un dibattito su realtà e verità. Ci sta.
    Però quel che penso al riguardo l’ho detto.
    Per come la vedo io, non comprendo nemmeno il “Chi sei tu per…?” rivolto, come dici, dal “relativista” al “confutatore”. Proprio perché cerco di conservare la prudenza di chi sa di guardare le cose da un punto di vista, non mi viene in mente di apostrofare così uno che guarda da un’altra prospettiva. E forse frequento i relativisti sbagliati, ma è una posizione che non mi è familiare.
    Parlare di una posizione prendendo come esempio le sue deformazioni patologiche e ideologiche e facendole passare per la posizione corrente (v. “reductio ad berlusconium”) non è utile. Non è molto distante dal dare del comunista a tutti così, a ca**o (dando per giunta alla parola un’accezione spregevole, ovvio).
    Insomma: chiamo Fabio a testimone, il fatto è che nel nostro campo (quello delle, diciamo, scienze umane) sempre di più si è fatta strada la consapevolezza che contare su teorie “vere” che escludessero il punto di vista dei soggetti interessati non era più utile. Si chiama relativismo? Va bene: noi l’abbiamo chiamato di volta in volta con nomi diversi, fra cui “postmodernismo”. Abbiamo trovato che fosse l’unico modo (l’unico modo che riuscivamo a trovare) per gestire la complessità di una società multiculturale, portatrice di differenze, nuova insomma, nella quale ci muovevamo. Abbiamo trovato che continuando ad affidarci a teorie “vere” per tutti rischiavamo di nuocere, pensa un po’. Insieme, si chiariva che l’esperienza della vita e di sé delle persone è di tipo narrativo, come dice chiaro Alberto. Così all’interesse per i “fatti” si affiancava quello per i “punti di vista”: qualche volta arrivava a sostituirlo, e magari non sempre in maniera prudente.
    Questa nuova posizione è priva di pericoli? No, certo. Un pericolo è che qualcuno sfrutti a suo favore il vuoto di idee “forti” e “definitive”. Ma hai voglia se almeno altrettanti prepotenti non hanno sfruttato e non stanno sfruttando a proprio favore tutte le idee “forti”, persino le fedi religiose.
    Che si fa? O molli o ci stai: vigile, consapevole dei pericoli, ma ci stai.

  12. anche il potente che racconta balle e la gente che ci crede, sono storia antica. Come il cucco, che come si sa precede il postmoderno.

    A me sembra di aver parlato anche di tecnica e di comunicazione. Anche i genocidi sono storia vecchia, ma mi sembra che Hitler, per dire, sia un’altra cosa. Del resto, a voler accogliere la parte vecchia, non è un caso che Platone si sia scagliato contro la teatrocrazia, i sofisti e tiranni.

    Parlare di una posizione prendendo come esempio le sue deformazioni patologiche e ideologiche e facendole passare per la posizione corrente (v. “reductio ad berlusconium”) non è utile. Non è molto distante dal dare del comunista a tutti così, a ca**o (dando per giunta alla parola un’accezione spregevole, ovvio).

    Ciò che tu chiami deformazione patologica e ideologica io lo chiamo caso limite, e di solito serve, per chiarezza, a illuminare tutti gli altri (fino a che non arriva chi parla di “verità locale”, naturalmente). Non c’entra la Reductio ad Berlusconium, mi pare, perché io parlo delle premesse, non faccio risalire le conclusioni alle premesse.

    il fatto è che nel nostro campo (quello delle, diciamo, scienze umane) sempre di più si è fatta strada la consapevolezza che contare su teorie “vere” che escludessero il punto di vista dei soggetti interessati non era più utile.

    Mi sembra che delle scienze umane faccia parte, fortunatamente, anche la filosofia, dunque non è affatto vero (si può dire che ciò che non è vero non è vero?) che «sempre di più si è fatta strada la consapevolezza che contare su teorie “vere” che escludessero il punto di vista dei soggetti interessati non era più utile». Come dice John Searle, «questi attacchi alla tradizione razionalista occidentale sono particolari sotto molto aspetti. Innanzitutto, il movimento in questione è in gran parte limitato a diverse discipline umanistiche, come anche ad alcuni dipartimenti di scienze sociali e a determinate scuole di giurisprudenza. La componente antirazionalista della scena attuale ha avuto – finora – una scarsa influenza nella filosofia».

    Su tutto il resto ho già detto, continuare ad attribuire alla posizione realista una contiguità con i decisionismi del potere e le imposizioni del punto di vista mi pare scorretto e poco fruttuoso. Kant potrà aver sostenuto anche cose non condivisibili, ma l’autonomia della coscienza come condizione necessaria della vita politica moderna non mi pare cosa da prendere sottogamba.

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