Edit 29 marzo 2016: Questo post mi fu chiesto per il sito Ilcapoluogo.it da Maria Cattini, che all’epoca lo dirigeva. Dopo avvicendamenti alla guida della rivista online, il post è scomparso. Lo ripubblico qui per intero.

L’Aquila, 23 nov 2011 – Torno da L’Aquila dove ho tenuto giovedì 17 una piccola conferenza – organizzata all’Auditorio Sericchi di via Strinella dall’Università per la Terza Età, che ringrazio ancora – sull’umorismo. “Penso dunque rido” era il titolo, preso a prestito da un librino, leggero ma sostanzioso, scritto da John Allen Paulos, professore di matematica di Filadelfia. Perché ridere è una cosa dannatamente seria, e non è strano che se ne occupino filosofi e intellettuali. Così, sono stato invitato a parlarne a L’Aquila in qualità di psicologo.

Dice: l’umorismo? Ma come? Gli psicologi non si occupavano di roba che fa piangere?

È un vecchio equivoco, causa e conseguenza del fatto che i libri che parlano del perché si piange sono parecchi, e rari invece sono quelli che parlano di ciò che ci fa ridere: così capita che sulle lacrime ne sappiamo di gran lunga di più di quanto non sappiamo sul ridere.

L’equivoco è rinforzato dal fatto che, nella nostra mania di tenere sempre separate le cose, siamo arrivati a pensare che il piangere e il ridere (il dolore e la gioia, la paura e il sollievo, il comico e iltragico) siano dimensioni estranee l’una all’altra, senza continuità.

Ma affidiamoci a qualcuno che alle separazioni e alle semplificazioni non credeva tanto: lo stesso Sigmund Freud lavorò a “Il motto di spirito” contemporaneamente alla stesura del “Caso di Dora” e dei “Tre saggi sulla sessualità”, convinto che la comprensione di un’area dell’esperienza umana potesse illuminare aree anche distanti; e un altro gigante del pensiero del Novecento, Gregory Bateson, chiarì come i testacoda del pensiero che fanno esplodere la risata siano fatti allo stesso modo dei garbugli dell’io che a volte fanno diventare matti.

Perché può capitare nella vita che la realtà si ribalti davanti ai tuoi occhi e che ti costringa a domandarti “cosa succede? Dove sono? Chi sono per davvero?”.

Quando Woody Allen dice “Quanto devono essere lunghe le gambe di un uomo?” e si risponde: “abbastanza da arrivare fino a terra”, tu salti sulla sedia perché è successa qualcosa che non ti aspettavi. Non te lo aspettavi perché il senso comunque vuole che la lunghezza delle gambe si misuri, diciamo così, dal punto dove appoggiano sul suolo (che è uguale per tutti!) fino all’anca (che può essere più su o più giù in funzione dello stacco di coscia). Non dall’anca in giù, con la conseguenza che se non hai le gambe lunghe rischi di restare sospeso a mezz’aria! La battuta ribalta il senso comune, ci mette davanti a un imprevisto e non appena abbiamo realizzato che siamo a testa in giù, parte liberatoria la risata.

Non era un umorista, ma un uomo di spirito sì, Oscar Wilde: uno dei suoi più celebri (e supercitati) aforismi è “Posso resistere a tutto ma non alle tentazioni”. Con l’effetto spaesante che deriva dal fatto che la frase è costruita come se le tentazioni fossero una parte delle cose a cui resistere (infatti a tutto resiste, tranne che a quelle), e non piuttosto, per definizione, il complesso delle cose a cui resistere (o non resistere). Le “tentazioni” sono ora classe e ora membro della classe, per dirla in termini matematici. Ora contenitore, ora contenuto; ora quadro, ora cornice. Ti trovi ad oscillare da un piano all’altro, e insieme alla vertigine arriva liberatoria la risata.
Un’altra oscillazione fra la parte e il tutto è generata da quel delizioso marchingegno paradossale che sono spesso le battute di Groucho Marx. Per tutte: “Grazie, ho trascorso una serata veramente meravigliosa. Ma non è questa”.
A volte la sorpresa è l’effetto delle ambiguità del linguaggio: in un film di Francesco Nuti di parecchi anni fa (qual era, accidenti?) il protagonista domandava a un passante: “scusi, ha cento lire?”, e quello: “sì, certamente”, e tirava dritto. Dove la richiesta era non di un’informazione, ma di una moneta! Non impariamo mai: nella conferenza stampa del Presidente del Consiglio incaricato Mario Monti, una cronista fa: “posso chiederle se ha intenzione di introdurre una tassa patrimoniale?”, e il neopresidente: “certamente può chiederlo”, spostando subito dopo lo sguardo verso la sala, come per dire: “altre domande?”; e la sala ride, forse anche della collega scornata.

Ancora, dopo la recente alluvione di Genova, il sito Spinoza.it pubblicò una serie di battute fra cui questa: “Ora il consiglio è di salire ai piani alti. A fargli un culo così”. Ricorderete che nelle ore della grande onda, le autorità ammonivano i cittadini ad abbandonare i piani terra e i primi piani per cercare rifugio più su, dove l’acqua non poteva arrivare: qui il gioco è fra il significato letterale dell’espressione “i piani alti” e quello metaforico, con cui ci riferiamo al potere, a quelli che decidono, a quelli che hanno responsabilità (perché difficilmente l’ufficio di un presidente, o di un direttore generale, o di un sindaco, lo trovi al piano terra: lì ci sono gli impiegati, ma da chi comanda ti separa quasi sempre qualche rampa di scale).

groucho-marx

Però, a pensarci: è sufficiente il meccanismo che ho provato a illustrare, per dar conto del processo che porta alla risata? Probabilmente no, non è tutto. Non si capirebbe infatti come una barzelletta dal meccanismo preciso come un orologio svizzero non sia più la stessa se le cambi un dettaglio, o un personaggio, o il contesto. O se la racconti “sbagliando” i tempi.

Prendiamo ad esempio la battuta sui piani alti: come non vedere che l’effetto umoristico è scatenato anche dal pernacchio liberatorio indirizzato al potere all’indomani di una tragedia (frutto non solo di un evento atmosferico, ma di decisioni sbagliate prese nel passato e forse nel presente) che ha mietuto vittime innocenti? Come non pensare a quella risata come alla sottile rivalsa dell’impotente sul potente?

Più su citavo Woody Allen e Groucho Marx: ci sarà una ragione se fra gli autori che citiamo più spesso come maestri di umorismo tanti sono ebrei? Ci sarà una relazione fra l’aver subito sopraffazioni di tutti i generi e l’aver sviluppato quello straordinario senso del paradosso e dell’assurdo? Non potendo approfondire qui la questione, mi basta citarvi Moni Ovadia che descrive l’umorismo come un modo di “gettare una luce inaspettata sulla violenza”.
Per di più, quando ridi e sai che tanti stanno ridendo insieme a te, sperimenti un senso di appartenenza e un sentire comune. Il potere della risata di stabilire connessioni fra le persone e rinforzare il senso di appartenenza è enorme: il riso è il segno di un accordo. Kahlil Gibran disse più o meno che non dimentichi le persone con cui hai pianto, ma dimentichi quelle con cui hai riso. Beh, Gibran avrà detto tante cose utili, ma quel giorno ha detto una fesseria grande così (chi non ha mai avuto una giornata sbagliata?).

E allora eccolo, il punto di incontro fra il comico e il tragico, fra la risata e il pianto, fra lo sberleffo e la disperazione. È il punto in cui la risata diventa un rimedio efficace alla paura e una acuminata espressione della rabbia. Qualche volta, lo vogliamo dire?, della rabbia è lo sfogo più innocuo: per esempio davanti alla televisione si ride, e si ride tanto, del potere. Avete mai l’impressione che in qualche occasione quella risata sia la gentile concessione del potente (che come funzionano i moti dell’animo lo sa meglio di me e di voi) che si lascia bonariamente prendere per i fondelli e di fatto disinnesca la rabbia più sacrosanta permettendole un’evacuazione che ci fa sentire più leggeri e liberati e finisce lì?

Insomma, la risata ha a che fare con una situazione che minaccia e spaventa. Con la rabbia e persino con l’odio. Hai voglia a chiederle di essere rispettosa e di non esagerare, di fermarsi davanti al sacro e alla tragedia. È proprio davanti allo sgomento, è proprio davanti alle cose che ti fanno sentire piccolo, impotente e minacciato, che ha da fare il suo lavoro.

Ecco: sulla struttura della battuta di spirito ne sappiamo qualcosa. Sul perché faccia ridere, e sul perché ci sia così necessario, abbiamo solo ipotesi. Io ne ho una che mi intriga.

Cos’è quel ribaltamento della realtà e del consueto, quell’oscillazione senza fine fra significati che ti lascia senza fiato per una frazione di secondo, se non una metafora di un pericolo, di una minaccia al senso delle cose addirittura? Cosa se non la rappresentazione di qualcosa che ti fa perdere l’orientamento e ti fa mancare la terra sotto i piedi? E cos’è allora, la risata, se non l’oscillazione fra la vertigine e l’esplosione liberatoria di chi realizza “toh, sembrava una minaccia ma sono ancora qui; mi ha fatto girare su me stesso ma non era un’alluvione e nemmeno un terremoto”. E così affronti (metaforicamente, eh!, mica alla lettera) un’esperienza che ti ribalta il mondo e sperimenti che sopravvivi. Che sei più forte tu.

Ecco, ci credereste che in nessun modo la connessione fra la risata e il tragico ci sembrava così cruciale quando decidemmo, io e l’Università Per la Terza Età, di organizzare una breve conferenza sull’umorismo? Anzi, l’avevamo in mente da prima del terremoto. Prevista per un giorno dell’aprile del 2009, saltò perché improvvisamente L’Aquila ebbe altro a cui pensare (oltre che non molta voglia di ridere, come si può capire). Quando si dice le sorprese che ti capovolgono la realtà, gli eventi che ti fanno perdere l’orientamento e il senso.

Così quello che all’inizio era previsto come un argomento lieve, anche un po’ discontinuo rispetto ai temi impegnativi di cui si occupa l’associazione, è diventato giovedì 17 lo spunto per alcuni pensieri su come affrontiamo la tragedia e su come la risata, che ti fa sentire forte e ti permette di sentirti parte di qualcosa, sia, se non la cura, una sua parte integrante.

È probabile che, se un tempo si andava a una delle tante iniziative culturali che da sempre la città offre pensando “andiamo ad ascoltare qualcosa di interessante”, oggi capiti che il pensiero sia “andiamo a pensare a qualcosa di diverso”. Qualcuno me lo ha detto chiaro, a quattr’occhi al termine della serata. Anche la grande affluenza di pubblico a un incontro dove si parlava del ridere denota una grande voglia di leggerezza.

Nel breve dibattito finale (prima di lasciare il palco al Coro dell’Università per la Terza Età, che ha chiuso in bellezza il pomeriggio), la domanda cruciale dal pubblico è stata: non è che dovremmo provare a parlare anche d’altro che non siano i problemi che abbiamo da due anni e mezzo e i ricordi di quella notte? Non è che dovremmo provare a ridere un po’ di più?
Ovviamente questo è il mio augurio. La risata può essere un modo di buttarsi le cose dietro le spalle e pensare ad altro, dimenticare per un po’. Evadere, come si dice: e d’altra parte, male non fa. Ma ridere può essere anche un modo di fare un passo indietro dalla realtà per il tempo utile a guardarla da un’altra prospettiva, scoprirne aspetti nuovi, magari scorgere nuove possibilità: è in questo senso che la risata può essere strumento di conoscenza e di salute persino.

2 risposte a "Ridere, ridere, ridere ancora"

  1. Insomma, con l’ ultimo paragrafo ci vuoi dire che no, non è che ti fai due risate e metti su la conferenza, ma ti ci sei preparato seriamente:-)

    Sai che a suo tempo avevo fatto una tesi sulla traduzione di umorismo e giochi di parole in Asterix? Ho un debole per l’ argomento, quindi la tua bibliografia mi fa benissimo.

    1. Do questa impressione? No, è che avevo pensato anche “magari passa qualcuno che ha fatto la tesi sulla traduzione di umorismo e giochi di parole in Asterix e gli interessa…”
      È curioso, mi ricordo che lessi un episodio di Asterix in due traduzioni diverse e trovai che un gioco di parole era tradotto diversamente. Brutto tutt’e due le volte.

Lascia un commento