A che serve un libro

A che serve per chi lo scrive, intendo, non per chi se lo porta a casa per leggerlo o per metterlo nello scaffale in attesa di farlo prima o poi.
Per come la vedo io, scrivere un libro (parlo di quel genere di libri in cui metti l’idea, la teoria, la visione delle cose che hai coltivato per un po’ di tempo, per condividerla con una comunità di persone, di colleghi, nella speranza che sia utile anche a loro) serve per alzare il cu*o dalla sedia. Cioè a uscire dalla tua stanza e mettere quell’idea a confronto con quelle degli altri e prevenire il rischio facile dell’autoreferenzialità e dell’autoconvalida.
Il paradosso sta nel fatto che, prima, su quella sedia ci devi passare qualche anno, lontano da tutti (diciamo…). E che, prima di sciogliere quelle idee nella conversazione con gli altri, devi metterle sulla carta, che le rende di granito (perché quando una cosa è scritta, è scritta).
Così negli ultimi due anni ho portato in giro, da solo o con Flavio che l’ha scritto con me, il libro uscito nel 2009, per parlarne col pubblico che incontravo oltre che con lui, luilui, lui e loro.

Giuliana Guazzaroni

Dopo un paio di anni che abbiamo passato a incontrare colleghi e gente contigua ai nostri diretti campi di interesse, la settimana scorsa, come vi annunciavo qui, sono partito per un paio di incontri nelle Marche per parlarne anche lì. Vi dicevo che i criteri con cui mi ero organizzato il giro erano che avrei scelto interlocutori che venissero da altre professioni e ambienti culturali; e che sarebbero stati amici che avevo conosciuto on line.

Jacopo Nacci

Così, come era già successo l’anno scorso a Roma con Luca Casadio, col quale da mesi scambiavo email e commenti sui rispettivi libri appena usciti, venerdì 10 a San Severino Marche (in provincia di Macerata) e sabato 11 a Pesaro, ho stretto la mano a due persone con cui avevo avuto scambi preziosi, dei quali avevo letto e usato i pensieri, ma che non avevo mai incontrato di persona. Quello che ha aggiunto sorpresa a quei due giorni passati fra le colline e il mare, fra le autostrade e i borghi, è stato l’esperienza vertiginosa del salto fra il virtuale e il mondo in carne e ossa, fra due amici della rete e i loro alter ego “di qua”, con le loro facce, le loro voci e il loro gesticolare.
Così, venerdì ho discusso con Giuliana Guazzaroni davanti agli avventori della libreria Binariozero di San Severino (grazie a Luigi e a Dario per la cura). Ci siamo confrontati su virtuale, pensiero connettivo, ipertesto, rete, anche esplorando i modi in cui le cose che si fanno nel mio mondo si possono descrivere col linguaggio del suo (che è quello della formazione e delle tecnologie di e-learning, delle reti, delle comunità di pratica).
La sera dopo ho incontrato Jacopo Nacci all’Enoteca 075 nel centro di Pesaro: con Jacopo da tre giorni, e anche mentre percorrevo l’autostrada adriatica verso le Marche, avevo ingaggiato un confronto maschio e serrato via Facebook sul postmoderno (Jacopo, narratore ed esploratore filosofico, ha tante qualità, ma nutre la convinzione irrazionale che le cose siano le cose ;-)). Altrettanto accalorata, la discussione sulla “realtà” (Jacopo la scriverebbe senza virgolette, suppongo) come costruzione collettiva di significati o, al contrario, come essenza “lì fuori” (e sulle implicazioni di tutto questo nella cura) è continuata davanti a un cerchio curioso di persone che sono venute ad ascoltarci.
Adesso con Giuliana e con Jacopo la conversazione ritorna nei luoghi del virtuale dove ci siamo frequentati fino alla settimana scorsa, e intanto grazie a tutt’e due per i link e anche per i dubbi che mi sono riportato a casa.

3 risposte a "A che serve un libro"

  1. George Orwell diceva che la libertà è raccontare alla gente quello che non vuole sentire. Forse a quello serve il libro: a raccontare un po’ le cose come stanno, dal momento che molta realtà scomoda è stata messa da parte.

  2. Ciao Marco. È un’ottima ipotesi! Interessante e oltre tutto responsabilizzante per chi scrive…
    A me certe volte piace pensare che l’utilità per gli altri sia un effetto secondario (parlo, ripeto, non di narrativa, che è un campo sul quale non potrei dire qualcosa in prima persona, ma di quello nel quale mi muovo io con le cose che scrivo, sui libri e su riviste).
    Un mio amico e collega dice spesso che andare in giro a presentare un tuo libro è utile perché quelli che vengono a sentirti ti spiegano quello che hai scritto 🙂
    Ma anche prima di portarlo in giro, penso che un libro (o anche un articolo) nasca soprattutto perché serve a chi lo scrive. A mettere i pensieri sulla carta, a guardarli da un passo indietro (come il matematico davanti ai suoi calcoli sulla lavagna), a chiarirgli in che rapporto stanno fra di loro…

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