vitocrimiA me va bene che uno che faceva il comico fondi un partito, non ho niente da ridire. Non più che se fosse uno che cantava sulle navi, o faceva la televisione, o faceva il presidente di una squadra di calcio, o tutt’e tre queste cose. Semmai ho un problema quando quello parte per un giro di comizi e li chiama “spettacoli”. Perché io sono all’antica, di una persona mi piace sapere che mestiere fa.
Ma non è di quello, che voglio parlare – lo dico a beneficio dei troll che stanno già là col ditino pronto. Voglio parlare del far ridere, che è una faccenda talmente sacra e necessaria che per il suo bene sarebbe meglio tenerla distinta da certe altre cose.
E siccome far ridere è una cosa che più o meno riesce a molti (saper raccontare le barzellette, saper cogliere l’aspetto paradossale, saper vedere il dettaglio che sfugge agli altri, o semplicemente riuscire a dire quella cosa fuori luogo che ti qualifica come un fesso e fa sghignazzare quelli intorno), tutti reclamano uno status professionale di stimolatore esperto di risate. Non c’è nessuno che, fatto oggetto di critica per una sguaiatezza o per una battuta molto sconveniente, non si sia attaccato all’argomento “ehi, bello, guarda che questa è satira!”.
Vito Crimi che pensa di essere un sacco duepuntozzero lasciando sulla propria timeline di Facebook delle battute infantili sull’intestino del suo anziano avversario, richiamato a considerare quanto fuori luogo e idiota fosse la sua uscita, ha protestato: “era un post satirico, se l’avesse detta Crozza o un altro comico staremmo tutti a ridere!” senza rendersi conto che la cosa che fa veramente ammazzare dalle risate, è proprio quella: che non vedesse l’elefante e si giustificasse col fatto che un elefante gli copriva la visuale; che Crimi non fosse un comico ma un senatore della repubblica e che per giunta avesse scelto, per esprimere il suo umorismo scatologico, il giorno in cui la Giunta per le Elezioni decideva del futuro politico dell’anziano competitor.
Ecco: che la battuta facesse ridere come lo spigolo del comodino quando lo riconosci con l’alluce alle tre di notte, è solo il problema minore. Quello grosso veramente è il problema di contesto. È perché non sta bene? Non solo: perché rischiava di combinare un casino inenarrabile nella vicenda grave e delicata che si stava consumando dietro la porta della Giunta.
O magari c’è qualcosa che non ho capito io. Magari io l’ho preso per uno che vuole fare lo splendido senza capire con cosa stia giocando, mentre invece lui è una specie di artista che vuole sovvertire le regole. Bene. Sei una specie di Frank Zappa? No, a occhio no. Sei almeno i Sex Pistols? Uhm, nemmeno. Allora, ciccio, torna a giocare in parrocchia. Ci sono giochi che hanno altre regole, e una di queste è: niente battute sulla peristalsi e sull’età dell’avversario. Non è una sofisticheria, è proprio il minimo indispensabile.
Poi quella del “post satirico” è veramente irresistibile. Se uno vomita quel che gli pare e qualcuno gli fa notare che il suo vomito è sgradevole, quello subito accusa di voler ledere il suo diritto alla satira: passa per l’eroe del libero pensiero, e il suo interlocutore per un mezzo fascista, perché magari ha l’idea che se la satira viene dalle viscere, non tutto quello che viene dalle viscere è satira.
Ma vado a cercare cosa sia questa “satira” alla quale tutti rivendicano il diritto: Wikipedia la definisce “un genere della letteratura e di altre arti caratterizzat[o] dall’attenzione critica alla politica e alla società, mostrandone le contraddizioni e promuovendo il cambiamento. Sin dall’Antica Grecia la satira è sempre stata fortemente politica […] Per questo motivo è sempre stata soggetta a violenti attacchi da parte dei potenti dell’epoca” ecc. ecc.
Allora, se il bresaglio della satira è la politica, decidi: o sei il bersaglio o sei la freccia. O l’uno, o l’altro.
Lo so: sei un parlamentare, ma non sei proprio un parlamentare. Sei uno di loro, ma in verità sei uno di noi. Infatti non ti fai chiamare nemmeno “onorevole” o “senatore”. Sei solo “cittadino”. Non sei un collega di Berlusconi, sei un collega di Crozza. Beh: smettila. È un trucco. Vuoi essere Pasquino e il papa insieme, ma non puoi. Fai il papa, e piuttosto se vuoi fare un favore a noi fallo bene.
(Ehi, Tarantula, ma non avevi detto che non avresti parlato di… di coso, là…? E infatti, non l’ho nemmeno nominato… e va bene, era un depistaggio; oltre al blog ho una vita, io, mica posso passare le giornate a bannare troll!).
Ma non è solo questione di chi faccia lo spiritoso. È anche verso chi. Io penso che l’atto di sghignazzare delle disgrazie di poveracci non possa rivendicare la protezione che si deve alla libera espressione della satira. Se la satira è l’arma dell’ironia e dello sberleffo contro il potente, trenta morti in un pullman che torna in Basilicata da un pellegrinaggio non possano essere oggetto di satira. E pure io a Spinoza un po’ gli voglio bene, e ci sono dentro amici a cui voglio bene. Però fra un tizio che scrive battute al computer e trenta poveracci che cadono in un burrone coi propri familiari, chi sia più potente non me lo domando nemmeno. Si dirà che il bersaglio non sono i trenta disgraziati, ma – attraverso loro – lo Stato che non funziona, la crisi di responsabilità e chissà cos’altro. Va bene. Allora diciamo che, almeno le prime ore, i primi giorni, le prime settimane, trenta morti hanno il diritto di essere trenta morti, e non la metafora di qualcos’altro.
Perché sennò mi viene un sospetto: che lo sghignazzo sia uno strumento protettivo, che serva per mettere quanta più distanza possibile fra sé e l’orrore. Un antidepressivo inconsapevole, un silenziatore delle emozioni: che è tutto il contrario di quello che, di solito, la satira si propone di fare.
Se devo dire quale secondo me è la differenza, penso a uno dei punti estremi ai quali la satira, per quello di cui sono a conoscenza, si è spinta: quella prima pagina che Cuore preparò proprio nei giorni in cui Vincenzo Muccioli era gravemente ammalato. “Tutto pronto all’inferno per l’arrivo di Muccioli”, titolò la rivista satirica. Quel numero uscì proprio poche ore dopo la morte del fondatore di San Patrignano. Faceva male, indubbiamente. feltriMa da tempo la rivista conduceva una battaglia sulla figura di Muccioli, sugli intrecci fra il suo impero e il potere politico, sulla sua immagine di benefattore difficile da conciliare con altre informazioni che erano emerse negli anni e a cui avevano fatto seguito una condanna per sequestro di persona, una per favoreggiamento, un processo per omicidio. Non la morte, dunque, era oggetto dello scherno, ma la santificazione inopportuna di un potente ad opera di altri potenti.
E per associazione di idee, penso a un altro satiro improvvisato che decide di sbeffeggiare un morto. Giusto ieri, a poche ore dal suicidio di Carlo Lizzani, Vittorio Feltri twittava: “Lizzani si è lanciato dal terzo piano. Monicelli si gettò dal nono. Il che dimostra la differenza di livello fra i due anche nel suicidio”.
Cosa connota questa uscita come una espressione satirica anziché come una manifestazione di ferocia gratuita? Secondo me, niente. Cosa le distingue? Primo, una faccenda – aridanghete! – di contesto. E io ve l’ho detto all’inizio, per me è importante capire che mestiere uno faccia: figuratevi che guardo storto anche i giornalisti che fanno spettacoli teatrali coi risultati delle loro inchieste. Se avessi trovato queste frasi su Spinoza o sul Male mi avrebbero fatto meno orrore? Un po’ meno forse, ma non mi sarebbe bastato. Cos’è che si attacca, qui, qual è l’avversario? Qual è il potere contro cui si sfodera l’arma del riso? O è solo che Lizzani stava sulle balle a Feltri? E non è un po’ poco per infierire persino su un cadavere?
(Come testimonia l’immagine, non mi sono tenuto e appena ho letto il tweet di Feltri gli ho risposto. Sarò stato sgarbato, ma rivendico il mio diritto alla satira.)

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5 risposte a "Facce ride."

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