Alla fine del post precedente ti avevo promesso che ti avrei raccontato qualcos’altro del mio ultimo viaggio aquilano (per farlo mi aiuta Francesco Orifici con le sue foto: si è preso la briga, dopo il terremoto, di tornare negli angoli che aveva fotografato in tempi migliori, per comporre questa galleria di “prima / dopo”; grazie Frank!). Ti avevo raccontato della riapertura un pezzetto alla volta del centro storico: fermo, in coma, silenzioso e lugubre ma restituito alla vista e alla manutenzione dei ricordi di quanti ci hanno vissuto.

Ti avevo raccontato che avevo cercato in giro qualcuno più informato di me che mi spiegasse il senso di questa restituzione a spezzatino. Chi vive lì, come me allargava le braccia per dire “ci sarà qualche ragione imponderabile, vai a sapere”. Dopo che è uscito il post ho sentito al telefono una persona di lì, un altro dei miei punti di riferimento quando voglio sapere come vanno le cose. “Te lo dico io” mi fa. “Avevano pensato di chiuderlo per sempre, avevano fatto in modo che ce lo dimenticassimo. Hanno buttato fuori tutti. Quando hanno capito che non poteva funzionare, che la gente non ci stava, hanno cominciato a ridarcelo. Un pezzetto al mese, così noi siamo contenti e loro la tirano per le lunghe. Non gli è mai passata per la testa la ricostruzione del centro, ma ora che hanno capito che la gente se lo vuole riprendere, che fanno, arrestano tutti? Altro non possono fare: glielo restituiscono così”.

Io penso che questa spiegazione sia ragionevole. All’inizio era più remunerativo, dal punto di vista mediatico, costruire appartamenti nuovi e colorati intorno alle bottiglie di champagne del Presidente, che mettere mano alle pietre vecchie.
Dopo quattro mesi dal disastro trasalii udendo Bertolaso affermare in televisione che il centro storico era poco abitato e conteneva soltanto uffici e servizi: roba inaudita per uno che avesse passato in quella città non dico quattro mesi, ma solo quattro ore. O aveva completamente perso il senno, oppure fra le righe il messaggio era chiaro: scordatevelo. Non abbiamo intenzione di farne una questione centrale. Magari se ne riparla, ma non prima che l’erba si sia mangiata tutto e quelle pietre valgano due soldi per chi vorrà farci sopra centri commerciali e ville di lusso. Un’oasi nel verde a due passi dalla necropoli.
Ora Bertolaso non c’è più e agli amici costruttori che ridevano di notte gli si è strozzata la risata in gola. Ma non c’è più una lira, il problema del centro si è fatto cento volte più complesso, marciscono anche gli edifici che avevano avuto la fortuna di restare in piedi e, insomma, chi ha voglia di farci qualcosa?
Allora, adesso ti dico il seguito che ti avevo promesso. Ma tieni a mente quello che ho scritto fin qui perché c’entra.

Quel sabato di cui ti raccontavo nel post precedente, in cui mi godevo (no, la parola non è esatta) le vie del centro e chiedevo ai miei amici di spiegarmi questa strana riapertura un tanto al mese, mi è capitato di terminare la giornata a cena con un po’ di persone. Indovina qual era l’argomento di conversazione? E quale vuoi che fosse?
Bene, seduto di fronte a me c’era un vecchio amico, uno che è diventato un tutore dell’ordine, che – immagino non solo per ragioni legate al suo ruolo, ma anche per convinzione – si è trovato a difendere tutte le scelte operate a L’Aquila dall’indomani del 6 aprile 2009. Ci siamo messi a discutere, sempre più animatamente. Io lo incalzavo sul sistematico smantellamento delle relazioni e della comunità e lui mi opponeva argomenti robusti del tipo “eh, si fa presto a criticare”.
La conversazione si faceva sempre più rumorosa, tanto che i nostri commensali, con la scusa del caffè, se ne erano andati imbarazzati al bancone e ci avevano lasciato al tavolo ad azzuffarci sotto gli occhi preoccupati  dei camerieri. Con noi erano rimasti solo Gianluigi, che ci ascoltava divertito e se la rideva sotto i baffi, e Tiziana, che accompagnava ogni mio affondo con l’espressione soddisfatta di quello che fa il tifo sotto il ring (“Sì! Così!”) mimando ganci e uppercut.

Se c’è stato un momento in cui il ristorante ha rischiato di venire giù, è stato quando ha sfoderato l’argomento: “Allora erano meglio i container?”. Che è un argomento ricattatorio e poco corretto, perché i container metallici che ricordiamo dai terremoti degli anni Settanta sono superati e le alternative realmente sostenibili alla polverizzazione della comunità esistevano, ma evidentemente non per chi doveva prenderle in considerazione.
Usciamo dal ristorante che è passata da parecchio la mezzanotte e ci dirigiamo verso il Corso.
La lunga via che attraversa il centro da parte a parte è quasi buia, ma da qualche locale (ce n’è più d’uno, birrerie e gelaterie che hanno aperto, o riaperto, interrompendo la continuità del deserto) arriva una musica assordante. Ci facciamo largo fra decine e decine di giovani che parlano, ridono, bevono. Il contrasto fra il buio – interrotto solo da un faro piazzato abbastanza in alto da gettare un po’ di luce su un tratto di strada più ampio possibile – e il vociare divertito che riempie la via è impressionante.
Mentre io e il mio contendente stavamo litigando su cosa avrebbe salvato la città, quei ragazzi se la stavano riprendendo. Buia, abbandonata, rotta, tradita: era la loro città, e non c’era un altro posto dove avrebbe avuto senso andare a farsi un bicchiere al sabato sera. Non c’era una teoria sociologica dietro la loro scelta, o qualche cognizione di urbanistica: è sabato sera, voglio una birra, vado in centro.
Forme di vita incontrollabili e selvatiche rinascevano dove meno te l’aspetti e occupavano le strade. Forse inconsapevoli, magari del tutto ignari degli argomenti (salute, collettività, cultura) che io e il mio interlocutore ci scagliavamo addosso dieci minuti prima. Però si riprendevano le strade della città e quel buio sapeva un po’ meno di morte.
Mentre gridavo “permesso! permesso!” per farmi largo in quella piccola folla gaudente pensavo che dove forme di vita selvatiche e incontrollate occupano la città, prima o poi qualcuno dovrà accendere un nuovo lampione. E se c’è un nuovo lampione, prima o poi qualcuno avrà voglia di riaprire un’altra bottega. E se quel piccolo aggregato di cellule cresce, dovranno riaprire un vicoletto laterale. E così via.
Altro che dimenticarsela.

6 risposte a "Forme di vita incontrollabili"

  1. Ho letto attentamente ciò che hai scritto, e l’accesa discussione con il tuo amico delle forze dell’ordine. La prima riflessione che ho fatto è che il tuo amico incarna più della metà della popolazione residente, ossia quelli che ancor oggi dicono: meno male che berlusconi ci ha fatto le case, altrimenti stavamo in mezzo alla strada. Vorrei semplicente dire che molti aquilani e non devono saper che appena dopo 15 giorni dal sisma venne qui in città una società olandese leader mondiale della realizzazione di “moduli abitativi” altro che container a proposito del tuo amico. Il costo al mq era di 800,00 comprensivo di arredi e allacci. Eppure nonostante ciò non solo non hanno preso questa considerazione che avrebbe fatto a meno di scempiare un enorme territorio nei dintorni della città, ma hanno fatto lavorare solo imprese lombardo-venete a scapito sia dell’ecomonia locale, ma anche contro ogni logica costruttiva per via del prezzo così oneroso. Poi abbiamo visto cosa è emerso dall’inchiesta della Procura di Firenze, le cricche, le risate, gli affari che dovevano spendersi sulla pelle nostra e non solo. Caro Max, qui ci sono talmente tante cose che non vanno, che a volte non so dove cominciare. Ti saluto! Maurizio Aloisi

    1. So che molta gente difende le scelte fatte, e lo capisco. Dopo sette mesi in tenda una soluzione come quella è stata ben più di un sospiro di sollievo.
      Il punto è che la gente non doveva restare sette mesi in tenda.
      Credo di aver scritto già dal primo post, poco dopo il terremoto, che questa vicenda veniva affrontata come un problema edilizio. L’idea di città era quella di un agglomerato di abitazioni.
      Nessuna idea circa le implicazioni psicologiche, sociali, emotive, affettive. E non parliamo di quelle economiche, lavorative.
      Ma insomma, questo è quel che è successo. Adesso si tratta di alimentare forme di vita – selvatiche, regolari, irregolari, imprevedibili – che riportino vita in quelle strade.
      Ho incontrato un amico che è tornato lasciando un buon posto di lavoro che aveva trovato a Pescara. E’ tornato assumendosi un rischio, iniziando un’attività sua.

  2. Grazie Max, perchè nella tragedia del vissuto, con il tuo racconto sei riuscito a farmi sorridere, con i ganci di Tiziana e le risate sotto i baffi di Gianluigi..:))))…
    …ma la gioia di stare con i vecchi amici, si trasforma in rabbia,perchè inevitabili si intrecciano discorsi che hanno sempre un solo ed unico protagonista della scena : il terremoto del 6 aprile e la ricostruzione!…

    Ciò che vorrei dire è ricordare al mondo che ciò che gli aquilani hanno vissuto e continuano a vivere non è un semplice “terremoto”…il vibrare della terra quel 6 aprile, ha provocato nelle nostre anime delle ferite che forse non riusciranno mai a guarire…ma che anzi ogni giorno si aprono sempre di più…
    I ragazzi vogliono riprendersi la città, che hanno conosciuto quando da bambini giravano con i loro genitori…ma non credo che la musica assordante dietro cui nascondono le loro lacrime sia la giusta soluzione…

    Dobbiamo guarire dal sisma dell’anima…e ancora non sò quale sia la medicina più efficace…

    Grazie ancora Max!

    “PER ASPERA…AD ASTRA….”

    Marilena

    1. Marilena, grazie a te.
      Però: che vuol dire “non credo che la musica assordante dietro cui nascondono le loro lacrime sia la giusta soluzione”? E perché no? E quale sarebbe la “giusta soluzione”?
      Qua si tratta di rubare spazio al buio e al silenzio e riportarci la vita, il rumore, le risate. E chi l’ha detto che dietro quella musica “nascondono le loro lacrime”? E anche se fosse? Io ho visto un sacco di gente che stava insieme e cercava di stare bene. Sì, magari tanti di loro cercavano anche di trovare reciproca consolazione alle lacrime. E dunque? Mi sta benissimo che lo facciano uscendo di casa e incontrandosi. Fa bene a loro e fa bene alla città. Soprattutto se lo fanno per il corso invece che al centro commerciale.
      Mentre “dotti, medici e sapienti” (te la ricordi la canzone di Bennato?) discutono e fanno i moralisti (compresi noi che quella sera bla bla bla), quei ragazzi hanno fatto di quella strada quello che dovrebbe essere una strada di una città, cioè il palcoscenico della vita delle persone.

      1. ….è vero Max….è un palcoscenico!….Ieri sera in centro c’è stato l’ennesimo episodio di violenza che ha visto intervenire la polizia…avevano bevuto troppo…
        Su Viale della Croce Rossa i fermi per droga sono all’ordine del giorno…

        Purtroppo se parli con quei ragazzi, che hanno l’età dei nostri figli, ti rendi conto che cercano risposte, ma non le trovano…e non sono consapevoli di quanto grandi e importanti possano essere per la nostra città…

        Quel che hai visto era il corso in estate, vicino alla Perdonanza…d’inverno non è più così, perchè non ci sono più i vecchi pub a riscaldare le chiacchiere di giovani amici che consumano una birra…e allora si riversano tutti nella “movida” di Viale della Croce Rossa…

        Credo sia importante dar loro delle alternative, e come dici tu, farli sentire protagonisti della ricostruzione sociale, al di là dei numerosi bla bla bla di tanti “dotti, medici e sapienti…”, perchè in molti non sanno che dipende anche da loro….

        ..e soprattutto dobbiamo smetterla di cantare ad una sola voce…solo se diventiamo un coro potremo ricostruirci…
        ma questa è una storia vecchia…forse più vecchia del terremoto…

        Grazie perchè la tua voce arriva lontano!!!!!….

        Marilena

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